Addio fiorito asil
(di Mario Cossali)
L’esodo di Vermiglio in Val di Sole nel 1915, tragico come tutti gli esodi in Trentino di quella maledetta estate, quelli di allora come quelli, biblici e terribili, di oggi, è al centro con questa mostra non solo e non tanto del ricordo dell’arte, ma alla base di una vera e propria reinterpretazione dei sentimenti, che sotto la sua lente riescono a conservarsi, pur nelle mutazioni epocali, nel tempo. Ancora nel 1915 Sigmund Freud si augurava: “Torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima.” Ma il fondamento non era né stabile, né solido, non poteva esserlo, viste le premesse, riassunte dal massimo disprezzo della vita umana, in specie dei più deboli e indifesi socialmente, e che non a caso negli anni seguenti furono portate alle estreme conseguenze e ancora oggi, nonostante tutto, progressi della democrazia e della tecnica inclusi, si fanno sentire come ferite dolorose.
Queste brevi considerazioni per indicare in una sorta di contrappasso la vitalità permanente dello spirito dell’arte che ebbe allora e dimostra anche oggi la forza di passare attraverso il tumulto di accesi contrasti, di feroci conflitti, di barbari avvenimenti che riducono l’umanità a schiava dei suoi vizi peggiori. L’arte riesce, nonostante tutto, anche dividendosi, a tener viva una sete di autenticità e di verità, come dimostrano oggi il Comune di Vermiglio e l’Associazione La Cerchia con il suo gruppo di protagonisti creativi.
Scriveva ancora durante quella guerra il soldato-artista e architetto Luigi Tiella: “… Tanti dolori di madri calpestati: il rombo dei cannoni regna su tutte le voci e le copre. Ma verrà un dì che l’urlo di schianto di tante povere donne soffocherà il tuono delle artiglierie. E allora! Essere vivo quel giorno! Quel giorno in cui gli uomini maciullati dal dolore non avranno più la forza di alzare il fucile, di lanciare la granata e di ammazzarsi l’un l’altro. E allora l’arte nuova sarà l’arte di vivere: la costruzione sistematica di una vita qualunque. Quali ne saranno le forze esterne nuove? Se gli uomini non vorranno essere dei gamberi, non potranno neppure tentare di riattaccarsi al ‘prima della guerra’. Di questo prima non esiste più nulla: la colossale opera di distruzione compiuta in questi due anni di guerra non lascerà neppure l’orma d’una civiltà preesistente. Esisteranno le arti? Sì – perché il sentire negli uomini è innato, è nella natura…”
Ecco allora il senso dell’impegno di oggi sul dolore di ieri, la solitudine della donna che attende la partenza per l’esilio descritta con profonda partecipazione emotiva da parte di Carla Caldonazzi, insistendo su colori freddi molto espressivi, come il disegno di forte impatto storiografico di Paolo Dalponte, che dalla sintesi estrema riesce ad estrarre l’eco di invisibili eppur realissime sofferenze. Bruno Degasperi annota col suo carboncino incisivo le scene dell’addio, il muoversi dolente dell’abbandono, nel quale di uomini, di donne e di animali non variano sentimenti e paure. Ricordiamo i versi del poeta: ” In una capra dal viso semita/ sentiva querelarsi ogni altro male/ogni altra vita.” Domenico Ferrari fissa nel ricordo l’immagine carica di pathos della montagna matrigna che nel disastro della guerra ha salvato due scarponi e una piastrina, 1885 – 1915. Adriano Fracalossi è rimasto nel paese abbandonato, a Vermiglio, per fissare quei tetti simbolo vivo di una comunità e di un destino. Carlo Frenez resta fedele alla grande lezione postimpressionista del Dallabrida e ci riporta l’atmosfera della stazione di Mezzocorona, luogo della separazione definitiva. Carlo Girardi ha rappresentato il cuore trafitto, ferito, spaccato di Vermiglio, come se un solo cuore fosse quello di tutti. Annalisa Lenzi ci introduce in una sorta di Wunderkammer, che sa di antico e di ordine composto, inevitabilmente e tragicamente segnato dalla gabbia di una imprevista, inarrestabile prigionia. Silvio Magnini si immerge con passione nella folla dolente dell’esodo, quasi a tracciarne dopo lo strappo il viaggio nell’ansia prorompente. Gianni Mascotti figura plasticamente la terra strappata come fosse vera e propria parte del corpo del profugo. Pierluigi Negriolli trasforma miticamente la figura caricandola dei pesi del mondo, pesanti come quelli del cuore teso verso l’ignoto. Roberto Piazza inserisce l’esodo in un panorama apocalittico, quello di ogni guerra e in particolare quello di una “terra dove non annotta” nella prima guerra mondiale. I volti di Giorgio Tomasi nella tormenta oscura sono segnati dalle piccole luci dei legami del sangue e della solidarietà, lanterne salvifiche nella tormenta. Paolo Vivian, che resta sempre affascinato dal demone della memoria archetipica, raccoglie in gruppo le figure dei profughi rappresentandole con vecchi legni sui quali l’acciaio qua e là vada a significare le lacrime di un intero popolo. Elisa Zeni trascolora la tristezza dell’esodo in un una profluvie di rossi, arancio e azzurri, “addio fiorito asil”, che segnano il permanere, nonostante tutto e tutti, di una calda umanità in cammino.
Vermiglio, l’esodo del luglio 1915: l’arte che ritrova per noi, abitanti di un mondo ancora sconvolto dalla violenza, dalla sopraffazione e dal gesto barbaro contro la dignità della persona, la sacralità della vita, consapevole che, se molto, troppo è già andato perduto, non può certo abdicare al suo compito di esprimere “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Mario Cossali